La vera forza di questo drama.
Insieme a Kingdom (Corea del Sud, prima stagione 2019), questo drama è stato indicato come migliore serie internazionale del 2020 dal New York Times.
In realtà questa serie non rientra tra le mie preferite, ma i temi trattati, in pieno stile doramico, hanno grande rilevanza; e proprio perché affrontati con quel tocco fiabesco, caratteristico dei drama, che riesce a far vedere un lieto fine che non è poi così irrealizzabile.
Un argomento delicato come quello del gestire i propri traumi e le difficoltà quotidiane, determinate da situazioni familiari più difficili – considerando anche il contesto sociale di provenienza – porta a una riflessione interiore, e fa scaturire la voglia di affrontare le proprie sfide personali proprio come una fiaba, cercando il proprio lieto fine all’interno di una realtà, di certo, meno incantata.
Quel lieto fine che la sceneggiatrice stessa, Jo Yong, non ha avuto il coraggio di trovare: “È una storia che riflette la mia mentalità chiusa che non è riuscita a comprendere e riconoscere, e ha deciso di arrendersi solo per sfuggire ai pregiudizi” dichiara, e per questo motivo ha creato il personaggio di Gang-tae che, invece, non si è mai arreso.
L’industria dello spettacolo, è un sistema di per sé tossico, ma può comunque spingere verso dei cambiamenti sociali. Il potere dello spettacolo è, infatti, proprio quello di lanciare un messaggio di base come “It’s okay to not be okay” al grande pubblico attraverso una narrazione, possiamo dire, accattivante. Come il titolo stesso suggerisce, infatti, si cerca di normalizzare i disturbi mentali e di personalità facendo passare il messaggio che, citando il Produttore Park Shin-woo, “siamo tutti folli in un modo o nell’altro”.
Oltre a esortare la gente comune a trovare il coraggio di ammettere e superare le proprie debolezze emotive, il drama getta luce sulla crisi di salute mentale che esiste in Corea del Sud.
Secondo uno studio del 2011 condotto dal Yale Child Study Center, c’è un tasso sorprendentemente alto di incidenza di autismo in Corea del Sud. La ricerca ha rivelato che il 2,64% (o 1 su 38) di bambini in Corea del Sud sarebbe autistico, più della precedente stima dell’1%. Non significa che ci sia stato un aumento improvviso di casi di autismo, piuttosto indica che siano stati sotto-diagnosticati o non rilevati. La mancanza di informazioni statistiche e di consapevolezza dell’autismo in Corea del Sud si riflette non solo nella sua sottostima ma anche nelle limitate risorse disponibili per il trattamento. Spesso, i bambini con diagnosi di autismo frequentano le scuole pubbliche senza ricevere alcuna istruzione speciale o trattamenti psicologici.
Lo stigma sociale ad esso legato porta anche a scoraggiare le famiglie dal cercare aiuto. Quelle in cui un componente è autistico hanno difficoltà anche in cose come vendere la propria casa (perché la gente non vuole comprare una casa in cui ha vissuto una persona con autismo), senza considerare il fatto che trattandosi di una cultura collettivista l’idea di base è che bisogna contribuire alla società nel suo insieme, quindi essere utili.
I genitori tendono a rifiutarsi di riconoscere potenziali problemi di salute mentale, e addirittura a incolpare i propri figli per i risultati insufficienti a scuola.
La concorrenza per arrivare a frequentare le migliori scuole e ottenere una buona posizione lavorativa in Corea del Sud è davvero alta, e investe i giovani coreani già dai primi anni scolastici. Coloro che faticano a ottenere dei risultati all’interno dell’assetto tradizionale del Paese vengono facilmente etichettati come deboli o ritenuti un fallimento.
In Corea del Sud c’è una media di 38 suicidi al giorno, un tasso scoraggiante che rimane uno dei più alti tra i 37 paesi membri dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo). Questo dovrebbe portare davvero a una profonda riflessione.
Credo sia emblematica la storyline di Kwon Ki-do (Kwak Dong-yeon), che viene nascosto dalla famiglia per la vergogna, e non solo.
Infatti, non è importante soltanto la storia strettamente legata a Gang-tae (Kim Soo-hyun) e Sang-tae (Oh Jeong-se), ma è la crescita di ogni singolo personaggio della Clinica OK che lascia un segno importante in ognuno di noi. Quella voglia di liberarsi dalla pressione sociale, familiare, di ballare e gridare per strada: “questo sono io”.
Questo non è il primo drama in cui viene affrontata una tematica del genere. Sicuramente se avete apprezzato questo non potete perdervi It’s Okay, That’s Love (Corea del Sud, 2014).
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