Neet e società.
Come è stato per il tema degli hikikomori, mi trovo a osservare una faccia della società italiana partendo da quella giapponese. Mi spiego meglio: fino a pochi anni fa per me la parola neet era qualcosa che ritrovavo spesso nei manga, nei personaggi dei drama, qualcosa che associavo nella mia testa unicamente a quel mondo lì. Un fenomeno che per l’adolescente Me esisteva solo in Giappone. Oggi, mi rendo conto che la realtà è ben diversa.
Il termine neet viene usato per la prima volta nel 1999 nel Regno Unito, ed è l’acronimo di: «Not in Education, Employment or Training, Indicatore atto a individuare la quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione. Il riferimento è a qualsiasi tipo di educazione scolastica o universitaria e a qualsiasi genere di processo formativo […].» (Treccani)
Si tratta sostanzialmente di soggetti giovani con difficoltà a trovare di che sopravvivere.
Neet e hikikomori possono essere due facce della stessa medaglia.
In entrambi i casi vi è una sorta di opposizione alla strada precostituita che la società impone: frequentare le migliori scuole, ottenere un buon posto di lavoro, mettere su famiglia…
«Il problema dei NEEts e degli hikikomori ha, originariamente, una stessa radice: troppa protezione dei figli da parte dei genitori, mancanza di rapporti sociali, troppa pressione a livello della comunicazione. […] La protezione della famiglia, la mancanza di relazioni sociali è un problema non solo in Giappone, Italia o Spagna, ma anche in Corea dove c’è un alto numero di hikikomori. In questo caso è la competizione, anche a scuola, ad avere un grande impatto sulla società.» (Linkiesta)
Situazioni meno estreme sono quelle di chi vive facendo lavori part-time, ma si tratta chiaramente di situazioni precarie perché non si tratta di impieghi a lungo termine e non garantiscono un’assicurazione sanitaria adeguata. In Giappone come altrove, non è insolito diventare un neet in seguito a un esaurimento nervoso dovuto al lavoro.
Esistono quindi due tipologie di neet: quelli che cercano lavoro e quelli che non lo cercano.
In un articolo di Morning Future c’è una distinzione più dettagliata: «1) le persone in cerca di occupazione, che sono poco più del 40% dei Neet; 2) gli indisponibili alla vita attiva per motivi vari, che corrispondono al 20%; 3) persone non alla ricerca attiva di lavoro, ma in attesa di opportunità, ovvero persone che aspettano che si verifichino certe condizioni per poter iniziare un’attività, ed è circa un altro 20%; e infine gli scoraggiati, i disimpegnati, un 15% circa che non cerca lavoro e ha una visione pessimistica delle condizioni occupazionali». Si capisce, così, che ci sono diverse sfumature da tenere in considerazione.
In un’intervista del Prof. Yuji Genda, sociologo dell’Università di Tokyo, riportata da Linkiesta salta all’occhio una somiglianza alquanto drammatica tra la società giapponese e quella italiana tra i 15 e i 30 anni, in cui entrambe condividono un forte senso di scoraggiamento a causa di numerose esperienze negative nel campo lavorativo.
Il professore Genda indica tra le cause di questo fenomeno la recessione economica giapponese degli anni tra il 1990 e il 2000 che ha interrotto quel rapporto fluido tra università e mondo del lavoro, affliggendo i neolaureati nel limbo della precarietà e salari bassi, o del tutto nella disoccupazione più totale.
Su questa causa mi soffermerei, perché è proprio qui che si può vedere una connessione con il nostro Paese, dove nel 2017 i neet risultano essere ben il 19.9% di ragazzi della fascia di età presa come riferimento e nel 2018 parliamo invece del 23,4%, portandoci tristemente ai primi posti nella classifica europea. E come in Giappone, anche in Italia la crisi economica del 2008 ha contribuito facendo crescere la percentuale di neet fino ai livelli preoccupanti di oggi.
Come se non bastasse la crisi economica da cui non siamo mai usciti totalmente, accompagnata dallo scarso rapporto esistente tra gli svariati percorsi di studio e l’integrazione nel mondo del lavoro, il 2020 ha portato con sé una pandemia globale che ha definitivamente messo in ginocchio l’Italia (e non solo).
Così i numeri aumentano, la fascia di età si amplia raggiungendo i 34 anni, e il futuro diventa ancora più nebuloso. «Non basta però parlare genericamente di Neet. Dentro questa definizione, rientra infatti sia il neolaureato con alte potenzialità e motivazioni che passa del tempo a cercare un lavoro in linea con le proprie ambizioni e con il percorso di studi, sia il giovane uscito precocemente dagli studi e dunque con basso “capitale sociale”.» (Morningfuture)
Guardiamo al nostro protagonista di Alice In Borderland quindi. Arisu è un ragazzo demotivato, posto in continuo paragone con il fratello – talentuoso e conforme agli standard sociali – eppure molto intelligente e stimato dagli amici che lo esortano a realizzare il proprio sogno. Perché Arisu un sogno ce l’ha, ed è quello di diventare giornalista e scrivere articoli di viaggio. Viaggiare è il suo sogno e ha le capacità per realizzarlo.
Arisu è un ragazzo in gamba e, infatti, non a caso è proprio lui a risolvere brillantemente i giochi sadici a cui sono costretti a partecipare in Borderland.
Ma allora perché trascina la sua vita nella nullafacenza, dedicando le sue giornate a scherzare e bere con gli amici o a giocare ai videogiochi?
I dati ce li abbiamo tutti: scindendo dallo stereotipo che associa neet, hikikomori, nerd e otaku come delle persone incolte e antisociali votate solo ai giochi online; abbiamo un protagonista che sente il giudizio del padre pendere come una spada di Damocle sulla testa, costantemente messo sotto pressione dalle aspettative della famiglia e della società, e ad aggiungere carne al fuoco ha un fratello “di successo”, ovvero perfettamente in linea con i progetti che i genitori hanno infiocchettato per lui, con cui viene sempre messo a confronto.
Proprio qui si delinea la sottile differenza tra quelle due espressioni dello stesso disagio. Il passo dal diventare hikikomori è abbastanza breve.
Ma Arisu ha degli amici che fanno da paracadute, appoggiando i suoi sogni e accompagnandoli con i propri: Karube chiede ad Arisu dove gli piacerebbe “sistemarsi” tra un viaggio e l’altro e Arisu risponde che un posto da cui poter vedere un bel tramonto la sera sarebbe l’Australia (Volume 3, Capitolo 13). Magicamente, il sogno di Karube diventa quello di aprire un locale tutto suo in Australia.
Questo è il potere dell’amicizia, e questo è ciò che un sogno può fare anche se tutto intorno a te perde senso. Per Arisu, il sogno poteva essere quello di diventare musicista, attore, fotografo o qualsiasi altro mestiere senza un percorso chiaro e probabilmente avrebbe avuto lo stesso risultato finale: la disapprovazione del padre.
Ma è possibile oggi inseguire un sogno? È possibile trovare la propria strada senza seguire quei percorsi prestabiliti?
È già difficile inserirsi nel mondo del lavoro pur avendo seguito tutti gli step (scuola, università, master, corsi professionali). Viviamo in una società che ha una specializzazione per ogni ambito, ma è assolutamente carente nel creare connessione tra formazione e mondo del lavoro.
«A partire dal fatto che “molti giovani si trovano, all’uscita dal sistema formativo, carenti di adeguate competenze e sprovvisti di esperienze richieste dalle aziende”. Molti altri, “pur avendo elevata formazione e alte potenzialità, non trovano posizioni all’altezza delle loro capacità e aspettative”, dovendo quindi accettare col tempo adattamenti al ribasso per uscire dalla condizione di Neet. C’è poi un altro elemento: “l’inefficienza degli strumenti utili per orientare e supportare i giovani nella ricerca di lavoro, in particolare di matching tra domanda e offerta”.» (Ibidem)
Inserirsi in un mondo incerto richiede ancora più coraggio e spirito di avventura, ed è difficile trovare una famiglia che ti appoggi nel buttarti da un aereo senza paracadute. Ma non è impossibile.
Bisognerebbe, quindi, agire attivando politiche sociali efficaci e agevolare il passaggio dal mondo scolastico/universitario al mondo lavorativo; ma anche, da non sottovalutare, incentivare proprio quei lavori spesso ritenuti secondari ma che stanno alla base della società: arte, cultura, letteratura, turismo e tanto altro.
Soprattutto bisognerebbe guardare il mondo dietro alla persona, perché si fa presto ad additare una persona come fallita o debole, ma c’è bisogno di guardare a tutti i colori che si nascondono dietro “l’altro” e anche a tutte le sfumature per poter apprezzare il mondo e anche un po’ noi stessi.
Riferimenti:
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