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Classici, manga e serie tv: Da Alice in Wonderland a Alice in Borderland



 


Non sono mai stata particolarmente interessata ai survival, eppure dopo aver visto questa serie ho realizzato di essermi persa tante cose nella vita!

La trama di base mi ha ricordato – molto alla lontana – a Sword Art Online (di cui ho guardato solo l’anime) che ai tempi abbandonai subito perché la parte romantica aveva preso il sopravvento.

Ma Alice in Borderland mi ha aperto un mondo: basta pipponi, sì ai buoni sentimenti, alla disperazione, alla crudeltà umana, la tensione e anche un po' di sano splatter, perché no anche sadismo. Ma non solo questo.


Partiamo con ordine.

Alice in Borderland è un drama giapponese del 2020, adattamento del manga Imawa no Kuni non Alice edito in Italia da Flashbook Edizioni.


Ryōhei Arisu (Kento Yamazaki), Daikichi Karube (Keita Machida) e Chōta Segawa (Yûki Morinaga) sono i primi personaggi che conosciamo. Arisu, il cui nome suona proprio come la pronuncia giapponese di “Alice” rendendolo l’indiscutibile protagonista, è un neet (giovane senza lavoro e senza alcuna intenzione di trovarne uno) e gamer esperto – due caratteristiche che sempre più spesso vanno a braccetto – e trascorre le sue giornate bighellonando con i suoi migliori amici Karube e Chōta.

La prima puntata è molto coinvolgente, ritmata. I personaggi vengono delineati e caratterizzati con leggerezza, e il loro rapporto d’amicizia emerge in una manciata di minuti. Si tratta di tre ragazzi insoddisfatti della propria vita, annoiati e in costante fuga dalle proprie responsabilità.


Proprio come Alice che, annoiata dal suo far nulla, decide di buttarsi a capofitto nella tana di un coniglio parlante rinunciando alla fatica di raccogliere delle margheritine per farne una ghirlanda. Questo è forse il punto focale della serie: la noia della realtà contro la fantasia. Le responsabilità della vita reale contro la libertà delle illusioni. Il dover crescere e soddisfare le aspettative degli altri contro un mondo in cui nessuno sa chi sei e non pretende niente da te.

Il manga si apre così: «Liberarsi dalla noia della quotidianità/ Fuga dalla realtà/ Sindrome di Peter Pan/ Sindrome della seconda media [Chūnibyō]/ Non importa come lo chiamate, ma non vi è mai capitato di desiderare/ di andarvene in qualche paese sconosciuto, non importa dove?». Tutto rimanda a una fuga dalla realtà, al rifiuto di voler crescere, e proprio per questo la scrittura in chiave Alice nel Paese delle Meraviglie ha più che mai senso. Infatti, si tratta di un’opera che nasconde tra i suoi personaggi metafore e figure allegoriche del percorso di crescita della piccola protagonista, sottolineando le difficoltà del passaggio dalla fanciullezza al diventare adulti e quella paura di lasciare la spensieratezza e genuinità che è propria della giovinezza.


Tutte queste belle parole incorniciate da una narrazione apparentemente non sense.

Così come sfugge il vero significato dei sadici giochi a cui le persone approdate a Borderland sono costrette a partecipare, ma che tanto attraverso l’imprevedibilità delle situazioni estreme che si trovano ad affrontare quanto all’approfondimento delle emozioni e delle storie di ogni personaggio, portano a un’inevitabile riflessione sulla vita e su cosa ci spinge ad andare avanti, su cosa colma veramente la nostra sete di vivere.


E così, nel suo sogno di fuggire dalla realtà, Arisu viene accontentato: dopo aver visto degli strani fuochi d’artificio, i tre amici si trovano catapultati in una Tokyo deserta, un mondo dove bisogna affrontare dei giochi per poter rimanere in vita.

La tipologia e la difficoltà di ogni game (Gemu) è stabilita dal seme e dal numero di una carta da gioco francese, un dettaglio sconosciuto finché i partecipanti sono tutti all’interno dell’arena di gioco.

Alla fine di ogni game il vincitore ottiene la carta da gioco e un corrispondente “visto” equivalente al numero di giorni in vita concessi. Se entro l’ultimo giorno a disposizione del visto non si partecipa a un nuovo game avviene l’esecuzione del giocatore tramite un raggio laser.


Le quattro tipologie di gioco sono le seguenti:

  • Picche: Game fisico

  • Quadri: Game di intelligenza, logica

  • Fiori: Game equilibrato, racchiude le capacità dei precedenti semi e richiede collaborazione tra giocatori

  • Cuori: Game psicologico


Ora: il primo gioco casca anche abbastanza bene, solo un tre di fiori, quindi una difficoltà bassa, e menomale.

Dopo una serie di cattiverie, teste schizzate per aria, raggi laser, scene splatter e ansie varie, la trama avanza al passo della malvagità e sadismo dietro i vari semi; ma soprattutto dietro alla perversione del Game Master.


Nel corso degli episodi, cambiano totalmente ambientazione e toni, cambia l’atmosfera. I richiami a Alice nel Paese delle Meraviglie sono dappertutto: il Cappellaio Takeru (Nobuaki Kaneko), il coniglio Usagi (Tao Tsuchiya), il gatto del Cheshire Chishiya (Nijiro Murakami) – più conosciuto come Stregatto – e la grande domanda: riunendo tutto il mazzo di carte si potrà uscire da questo inferno?


Nel dubbio ho iniziato il manga solo dopo aver visto la serie, perché a fare il contrario è difficile accettare una serie per quella che è, si è troppo affezionati all’originale per apprezzare il rifacimento. È inutile dire che l’originale è sempre meglio, è chiaro, ma non so se avrei apprezzato la serie allo stesso modo agendo al contrario.

Siamo chiari: la serie è abbastanza fedele al manga. Grande eccezione è il primo gioco, totalmente diverso, sicuramente perché troppo difficile da riprodurre o quantomeno da garantire una resa televisiva coerente e che non sconfini troppo nell’assurdo.

Per esempio, un dettaglio che nel manga non esiste e che poteva benissimo non esistere anche nel drama, è l’utilizzo dei cellulari per ogni game. Ai fini del gioco sono totalmente inutili. Capisco la necessità di accontentare gli sponsor di Netflix, ma così ci si allontana anche da alcune logiche di Borderland e dei giochi! È stato un particolare che mi ha molto infastidito: il numero di partecipanti ammessi è potenzialmente illimitato, ma come fanno a esserci sempre il numero giusto di telefoni? Personalmente ritengo che questo attaccamento alla tecnologia a tutti i costi sia un po’ esagerato e superfluo.



Anche la caratterizzazione dei personaggi non si distacca molto dall’originale, anche se Karube in versione manga è più apprezzabile ed è forse quello che ha più i piedi a terra tra tutti. Infatti, dei personaggi e qualche game sono stati modificati per poter dare risalto al protagonista. Nel manga si dà molto spazio ai personaggi secondari, a volte troncando di netto la trama principale, ma così facendo l’autore non fa che dare risalto alle dinamiche morali dei giochi e soprattutto al messaggio di fondo che vuole mandare attraverso il manga.


È evidente, infatti, che Haro Aso voglia comunicare qualcosa di più profondo: oltre alla crudeltà – che fa comunque parte dell’animo umano – ciò che emerge, attraverso le scelte etiche che devono affrontare i personaggi e la loro storia personale, è la forza di rivalsa, il non farsi trasportare dalle delusioni che tutti affrontiamo in maniera diversa, e l’importanza del vivere a fondo la vita e goderne ogni attimo. Pur trasportati dalla brutalità dei giochi, siamo portati a crescere emotivamente insieme ad Arisu, tra la frustrazione per le ineluttabili sofferenze che la vita ci impone, riscopriamo che c’è un bisogno che ci porta ad andare avanti, uno scopo che muove i nostri passi e le nostre decisioni, per arrivare poi alla conclusione che pur tra alti e bassi vale la pena vivere questa vita.

La storia dei personaggi ci viene mostrata in poche strisce, brevi frammenti che riescono a comunicare la crepa nella loro esistenza, aspetto che nella serie prende più spazio e che per alcuni può risultare noioso e dare l’impressione di allontanarsi dalla trama principale.


I giochi sono fatti molto bene e la loro differenziazione mantiene vivo l’interesse. Sono creativi, richiedono abilità diverse e nascondono sempre una sorpresa finale, ma non ingannano mai. Le regole sono infatti ben definite, non lasciano spazio ai dubbi, sono quelle e non c’è un modo per aggirarle. Niente trucco niente inganno.


Ci sono Classici della letteratura che sono stati visti, rivisti e stravisti, adattati in tanti modi, ma da cui è difficile prendere le distanze perché racchiudono principi base della nostra vita. Di Alice nel Paese delle Meraviglie ne abbiamo viste tante versioni, ma questa ritengo sia un’ottima rivisitazione che ha permesso a Haro Aso di trasmettere il messaggio che aveva in mente, senza risultare scontato o noioso.


Alla fine del suo viaggio a Borderland, riuscirà Arisu a crescere, a conoscere se stesso e ciò che vuole, a capire i sentimenti umani, e ad affrontare la vita adulta?


Finora ho letto solo gli otto volumi corrispondenti alla serie, personalmente aspetterò l’uscita della seconda stagione per scoprirlo, anche se sarà un’attesa lunga e dolorosa. Spero di confermare il mio giudizio positivo anche per la prossima stagione.



 

Riferimenti:

  • Haro Aso, Alice in Borderland, Flashbook Edizioni, Bologna 2013.


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